venerdì 31 luglio 2009

Cercare Dio come beatitudine

Nel post di oggi molto ispirante vi porto delle parole di Yoganandaji come al solito tradotte allo meno peggio da me. :P

Namasté,
Mistico

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La nostra ordinaria concezione di Dio è che Lui è un superuomo, infinito, onnipresente, onnisciente e simili. In questa concezione generale ci sono molte variazioni. Alcuni considerano Dio personale, altri lo vedono come impersonale.
Qualunque concezione abbiamo di Dio, se non influenza la nostra condotta giornaliera, se la nostra vita quotidiana non trae ispirazione da essa, e se non è universalmente necessaria, allora quella concezione è inutile. Se Dio non è concepito in un modo tale che non possiamo fare a meno di Lui nella soddisfazione di un desiderio, nel nostro aver a che fare con le persone, nel guadagnare denaro, nel leggere un libro, nel passare un esame, è chiaro che non abbiamo percepito alcuna connessione tra Dio e la vita.
Dio può essere infinito, onnipresente, onnisciente, personale e misericordioso ma questi concetti non sono sufficientemente attraenti da farci cercare di conoscerLo. Si può anche fare a meno di Lui. Egli può essere infinito, onnipresente e così via ma non abbiamo alcun uso pratico ed immediato per queste concezioni nella nostra vita frettolosa ed occupata.
Queste concezioni stereotipate ci appaiono come valvole di sicurezza del nostro pensiero umano inibito. Queste concezioni ci spiegano Lui, ma non ce Lo fanno cercare. Esse mancano di forza motrice. Non stiamo necessariamente cercando Dio quando lo chiamiamo infinito, onnipresente, compassionevole e onnisciente. Questi concetti soddisfano l’intelletto ma non placano l’anima. Se rispettati e cari nei nostri cuori, questi concetti di Dio possono ampliarci in una certa misura, possono renderci morali e rassegnati verso di Lui ma non fanno Dio nostro, non sono intimi a sufficienza. Essi lo piazzano distante dalle preoccupazioni giornaliere del mondo.
La stessa concezione di Dio deve incitarci a cercarlo nel mezzo delle nostre vite quotidiane. E’ questo ciò che si intende con una concezione di Dio pragmatica ed attraente. Dobbiamo portar la religione e Dio fuori dalla sfera della credenza a quella della vita giornaliera. Se noi non enfatizziamo la necessità di Dio in ogni aspetto delle nostre vite ed il bisogno della religione in ogni minuto della nostra esistenza, allora Dio e la religione si ritirano dalla nostra intima considerazione giornaliera e diventano solo una questione di un giorno alla settimana. Per comprendere la vera necessità di Dio e della religione dobbiamo gettar enfasi su quella concezione che è più pertinente allo scopo primario delle nostre azioni quotidiane.
Dio è beatitudine. Egli è anche sempre esistente ed è consapevole della sua esistenza di beatitudine. Quando noi desideriamo l’eterne beatitudine o Dio, questo implica che con la beatitudine desideriamo anche un’esistenza eterna, immortale, immutabile e sempre consapevole. Tutti vogliono l’eterna beatitudine (Ananda) insieme ad un’esistenza eterna (Sat). Difatti la considerazione dei motivi del mondo mostra anche che non c’è nessuno che non vorrebbe avere la beatitudine o Ananda.
In modo simile a nessuno piace il prospetto dell’annientamento; se un tale pensiero è suggerito noi rabbrividiamo all’idea. Tutti gli uomini desiderano esistere permanentemente (Sat). Ma se ci fosse data l’eterna esistenza senza la consapevolezza di tale esistenza, la rigetteremmo. Chi abbraccerebbe un’esistenza nel sonno? Nessuno. Noi vogliamo un’esistenza consapevole. Inoltre noi vogliamo un’esistenza consapevole e beata – Sat, Chit, Ananda (esistenza, consapevolezza e beatitudine). Questo è il nome Indù per Dio. Ma per una considerazione solamente pragmatica noi enfatizziamo l’aspetto di beatitudine di Dio ed il nostro movente per la beatitudine, lasciando fuori gli altri due aspetti di esistenza consapevole.
Che cosa è Dio? Se Dio fosse qualcos’altro rispetto alla beatitudine ed il suo contatto non producesse in noi beatitudine, o producesse solo dolore, o se il suo contatto non caccerebbe vie il dolore da noi, lo vorremmo? No. Se Dio fosse qualcosa di inutile per noi, non lo vorremmo.
Qualunque concezione di Dio noi formiamo mediante l’esercizio della ragione rimarrà sempre vaga ed indistinta fino a quando Dio è realmente percepito come tale. Difatti noi teniamo Dio ad una distanza di sicurezza concependolo talvolta come un mero personaggio personale, e successivamente pensando teoricamente a Lui come esistente dentro di noi. E’ a causa di tale vaghezza nelle nostre idee ed esperienze che riguardano Dio che non siamo in grado di afferrare la reale necessità di Lui e del valore pragmatico della religione. Questa idea o teoria incolore fallisce nel darci convinzione. Non cambia le nostre vite, non influenza la nostra condotta in un modo apprezzabile, o ci fa provare a conoscere Dio.
Non c’è ombra di dubbio dell’assoluta identità della consapevolezza di beatitudine e della consapevolezza di Dio. E’ evidente quindi che Dio non può essere concepito meglio che come beatitudine se proviamo a portarlo all’interno della gamma della nostra esperienza di calma. Dio allora non sarà più una supposizione soltanto da teorizzare. Non è questa una concezione più nobile di Dio? Egli viene percepito manifesto nei nostri cuori nella forma di beatitudine nella meditazione. Se noi concepiamo Dio in questo modo, come beatitudine, allora e solo allora noi rendiamo la religione universalmente necessaria. Perché nessuno può negare che egli desidera raggiungere la beatitudine, e, se egli aspira a raggiungerla nel modo appropriato, egli diverrà religioso avvicinandosi e percependo Dio che è descritto come beatitudine molto vicina al suo cuore.
Uno non deve pensare che la sua concezione di Dio è troppo astratta non avendo nulla a che fare con le nostre speranze ed aspirazioni spirituali, che richiedono la concezione di Dio come un essere personale. Non è la concezione di un essere impersonale, come comunemente compresa, e nemmeno quella di un essere personale, come ristrettamente concepita. Dio non è una persona come la siamo noi nella nostra limitatezza. Il nostro essere, consapevolezza, sentimento, volontà assomigliano solo come un’ombra al Suo essere, consapevolezza e beatitudine. Egli è una persona in un senso trascendentale. Il nostro essere, consapevolezza e sentimento sono limitati ed empirici; i Suoi sono illimitati e trascendentali. Egli ha un aspetto impersonale ed assoluto, ma non dobbiamo pensare che gli sia al di là della portata di tutte le esperienze, anche quella interiore.
Una concezione di un essere personale che non sia altro che la nostra magnificazione non è richiesta. Dio può essere o divenire qualunque cosa, personale, impersonale, tutto misericordioso, onnipotente e così via. Ma non ci è richiesto prendere nota di queste cose. La concezione di Dio come beatitudine si adatta esattamente al nostro fine, alle nostre speranze, alle nostre aspirazioni e alla nostra perfezione.
Nemmeno si deve pensare che questa concezione di Dio renda degli idealisti sognatori tagliando la nostra connessione con i doveri e le responsabilità, le gioie ed i dolori del mondo pratico. Se Dio è beatitudine e noi cerchiamo la beatitudine per conoscerlo, non dovremmo trascurare i doveri e le responsabilità del mondo. Nell’adempimento di questi si può ancora percepire la beatitudine, perché è al di là di essi, e quindi essi non possono aver alcun effetto su di essa. Noi trascendiamo le gioie ed i dolori del mondo nella beatitudine, ma non trascendiamo la necessità di compiere i nostri giusti doveri nel mondo.
Dio viene all’interno della calma esperienza degli uomini. Nella consapevolezza di beatitudine noi Lo realizziamo. Non ci può essere nessun’altra prova diretta della sua esistenza. E’ in Dio, inteso come beatitudine, che le nostre speranze e aspirazioni spirituali trovano compimento, la nostra devozione e amore trovano un oggetto.

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